Se Penati è un problema per il Pd (e lo è) lo è anche Bersani?

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Michele Fusco

Il caso Penati ha una potenza devastante in termini di immagine per un partito già fragile come il Partito Democratico. Al netto del garantismo che si stringe e si allarga come una fisarmonica si impone una domanda, semplice ma certamente pesante: se Penati è un problema per il Pd (e sembra proprio esserlo), lo è anche Bersani? E ovviamente la domanda non allude minimamente a collusioni giudiziarie, ma più semplicemente (ma anche drammaticamente) alle scelte fondamentali della propria classe dirigente.
Capita così nel calcio, quando l’allenatore “impone” alla società il suo eterno secondo, capita nei giornali, dove il direttore sente la necessità quasi fisica di condividere un progetto con un amico, bravo professionista, in grado – come disse una volta Marcello Mastroianni, definendo cos’era un amico – di rompergli i coglioni. Insomma, di non essere d’accordo con lui. E capita, purtroppo in modo distorto, in politica dove poi quella fastidiosa diffidenza che si deve alle divisioni ideologiche, costringe gli uomini spesso a cercare cloni senza capacità critica, piuttosto che bravi dirigenti.

Abbiamo sotto gli occhi il caso Penati con tutta la sua potenza devastante in termini di immagine per un partito già fragile come il Partito Democratico. Al netto del garantismo che si stringe e si allarga come una fisarmonica, è certamente un caso di scuola per definire compiutamente ciò che volevamo sottolineare all’inizio. Si impone una domanda, semplice ma certamente pesante: se Penati è un problema per il Pd (e sembra proprio esserlo), lo è anche Bersani? E ovviamente la domanda non allude minimamente a collusioni giudiziarie, ma più semplicemente (ma anche drammaticamente) alle scelte fondamentali della propria classe dirigente.

Tra i tanti, tra i molti, moltissimi dirigenti di cui disponeva il Partito Democratico, il segretario, come suo secondo di assoluta fiducia, aveva pescato – evidentemente – la persona ch’egli riteneva più meritevole per quel ruolo così delicato. Penati. I due fanno politica da quando vestivano alla marinara e non c’è dubbio che la sincera provenienza da quel fertile Pci costituisse un bonus e non un minus. Ma al tempo della modernità, altri meccanismi di selezione avrebbero dovuto ispirare l’indirizzo di Pierluigi Bersani. Cosa dovremmo pensare, oggi, di quella scelta: che il segretario non aveva la più pallida idea di chi fosse il suo uomo di fiducia?

E qui è certamente utile fare uno sforzo di separazione di sentimenti e sensazioni, giacchè le responsabilità di Bersani non hanno nulla a che spartire con le orridezze giudiziarie di cui è accusato Penati, ma vanno intercettate in quel territorio di assoluta sensibilità che è la valutazione dei propri collaboratori in termine di stile, comportamenti, parole, eleganza umana, dignità, decoro, fedeltà ai principi. Possiamo dire che il signor Penati rispondeva perfettamente a tutti questi requisiti, che anche un banalissimo impiegato di un qualsiasi ufficio personale di media azienda avrebbe certamente tenuto in gran conto prima dell’assunzione?

Se Pierluigi Bersani ha risposto con un convintissimo sì a questa domanda semplicemente complessa e dunque ha portato Filippo Penati al suo fianco nel cuore decisionale del Partito Democratico, allora ha commesso non tanto un banale errore di valutazione sulla persona, quanto il più grande peccato che può toccare a un politico importante: l’essere totalmente avulso dalla realtà. A un dirigente così poco avveduto di psiche umana, e che è stato colpito da un contrappasso che non avrebbe mai potuto immaginare, come possiamo chiedere di operare quella scrematura fondamentale sulla futura classe dirigente del partito, quale sarà per i giorni a venire la sua stella polare nell’esame dei “candidati”?

Da l’inkiesta

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