Il riformismo dei democristiani – di Gianni Fontana

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 Da vecchio e convinto democristiano, mai pentito, ho preso atto della sentenza definitiva che ha voluto restituirre ad alcuni esponenti dello storico partito, simbolo e patrimonio storico-culturale. Oggi, su comunitanezt.org , agenzia ufficiale del ritrovato partito, ho trovato questo articolo di Gianni Fontana, segretrio della DC, che ritengo sia degno di pubblicazione e dell’attenzione di molti lettori ed elettori, a dimostrazione che quando ci sono idee e volontà, non vi è tramonto, bensì prospettiva e futuro.

Seguendo Comunitanext.org pubblicherò sul mio blog tutti gli editoriali che riterrò degli ed utili per un confronto di idee con chiunque voglia aprire un forum.

Buona lettuta.

giustus

I risultati dei recenti ballottaggi, che hanno registrato una astensione pari a quasi il 50 percento del corpo elettorale, sono di per sé – a prescindere da ogni altra considerazione – emblematici dell’ampiezza crescente del solco che separa i cittadini dalla politica, così come si è manifestata negli ultimi venti anni.
Un distacco, una separatezza nutrita di delusioni, frustrazioni, umori negativi, che, qualora non fosse colmato, porrebbe in gioco non solo l’architettura dei partiti, ma le stesse istituzioni, aprendo la strada a forze, parole d’ordine, messaggi antitetici alla nostra esperienza costituzionale e alla fisionomia di una democrazia europea.
A questa situazione già grave, e che la crisi economica alimenta ogni giorno di più, si aggiunge, come era del resto prevedibile, il crollo di partiti, come il Pdl, costruiti non solo con un cartello elettorale intorno alla figura del capo, ma anche nella presunzione che i valori tradizionali della milizia politica fossero obsoleti e potessero essere sostituiti da due subvalori, entrambi falliti: (I) l’esaltazione del mercato come demiurgo di ogni progresso non solo economico e la concomitante delusione nello Stato e nella sua attitudine regolatrice che sottintende l’adattarsi della sfera politica ad una funzione subalterna e residuale; (II) un efficientismo pragmatico, empirico e aziendalista applicato a una realtà molto più complessa, qual è la società civile.
Nello stesso segno, si iscrive l’eclisse fragorosa della Lega che ha mostrato tutta la deriva clientelare di un partito padronale costruito su una secessione separatista del tutto inesistente.
La tenuta del Partito Democratico, che però coglie o si appropria dei successi nelle città maggiori con candidati esterni ed estranei alla sua esperienza e alla sua fisionomia, è comunque di per sé dimostrazione di quanto fossero falsi i presupposti delle avventure degli ultimi 15 anni e quanto invece, nel tempo della crisi, possano prevalere le forze in qualche modo capaci sia di elaborazione progettuale, sia di una qualche continuità col retroterra delle culture politiche di riferimento.
In questa stagione di “democrazia malinconica” e di disorientamento, disincannto paura del futuro, che sconta gli effetti perversi di una crisi economica globale, aggravata da anni di imprevidenza, di gestione decadente e degenerata della politica e delle istituzioni con un indice di credibilità dei partiti attestato su livelli infimi, abbiamo sentito il dovere di riproporre l’intatta validità del patrimonio ideale e della cultura politica proprie all’esperienza della Democrazia Cristiana, protagonista indiscussa di decenni di sviluppo e di crescita economica, sociale e civile.
Democrazia cristiana che, giocoforza, è naturalmente coinvolta nella questione del “centro” assunta proprio secondo la lezione sturziana. Come è noto per il Grande Prete di Caltagirone il centro non allude ad una geometria variabile, ad una equidistanza sulla mappa degli schieramenti, ma è un modo per definire un’interpretazione temperata della politica, una tendenziale riduzione della sua parzialità, un’attitudine a percepire, nel farsi e nel divenire degli interessi e dei valori, le scelte che meglio corrispondono ad un’idea di interesse generale, meglio di bene comune.
È per questa ragione che la parola del centro non significa la volontà di rappresentare interessi definibili come moderati ma la capacità, piuttosto, di moderarli, nella coerenza di un convincente disegno politico.
Tutto ciò significa una consapevolezza del limite della politica, un’inclinazione aperta al confronto in tutte le direzioni, ma anche una determinazione intransigente in difesa delle regole di libertà e dei compiti di giustizia che giustificano e avvalorano il potere politico.
In questo senso possiamo definirci riformisti senza il bisogno di etichette ridondanti. Riformisti perché sappiamo che il compito della politica si misura sulla capacità dell’idea di diventare progetto e di maturare consenso. Dell’idea non coltiviamo l’astratta fissità ma il dinamismo che la coniuga alla concretezza di una realtà mutevole, di un movimento disordinato e veloce che ha bisogno di un alveo che ne incanali il corso e l’energia.
Le nostre energie sono niente di più dell’intenzione che ci anima e niente di meno delle idee che intendiamo testimoniare. Sono inesistenti le nostre strutture organizzative, penose le risorse, esile la nostra voce e nulla la risonanza sui mezzi di informazione.
Ma sentiamo che ci riesce di interpretare molti stati d’animo, molte attese deluse, molte domande ansiose che forse riusciranno a riconoscerci nella fragorosa arena delle forze politiche italiane.
Amici cari, senza presunzione, ci pare che sulla scena politica italiana sia particolarmente nociva e deleteria l’assenza di un soggetto politico di ispirazione cristiana, la mancanza di un patrimonio che intendiamo riproporre ed offrire come una risposta convincente alla crisi di una politica che ha smarrito le sue autentiche ragioni: quelle del servizio al Paese, della centralità della persona e della famiglia, per costruire, con la promozione, il decisivo, attivo apporto delle nuove generazioni, un futuro animato da rinnovata speranza.

(*) segretario nazionale DC

 

Salviamo il lavoro, con l’impresa per il Paese

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Circa un mese fa, associando la crisi del Paese con quella dei partiti, ricordavo sul mio blog, l’avvento della storica manifestazione di impiegati e dirigenti della FIAT che cambiò l’ordinamento sociale del Paese. Erano tempi veramente duri, i sindacati, superando la stessa logica sindacale, bloccavano, quasi con la forza, l’attività dell’industria, con azioni di puro picchettaggio, imponendo uno stato di tensione non condividibile e condiviso da una grande parte del mondo operaio e impiegatizio di quell’industria e di quella città, forti della loro organizzazione. Allora quella dei “colletti bianchi” fu una manifestazione che con la larga ed inaspettata partecipazione fece riflettere i sindacati che, bisogna dirlo, ebbero quel senso di responsabilità per far rientrare la catena di scioperi e riprendere il lavoro partendo da quello per riaprire le trattative senza la spada di Damocle dello sciopero ad oltranza. Da allora è passato qualche decennio, in questo momento la crisi economica sta minando tutta l’impresa ed anche quella che era il nostro fiore all’occhiello, la FIAT. La nostra industria automobilistica non riesce a sfondare il mercato interno già subissato da una offerta  pressante della concorrenza internazionale.

E’ di ieri la notizia della messa in cassa integrazione dei “colletti bianchi” della FIAT per sei giornate a zero ore. Un colpo tremendo, la prima volta che ciò accade, da ciò la preoccupazione della stessa FIOM, quell’ala del sindacato che più di ogni altro si sta battendo per una lotta tradizionale addirittura in antitesi con le altre organizzazioni sindacali. Forse questa volta sarà il caso di superare tutti gli steccati e vedere di attuare una strategia comune tra tutti i lavoratori siano essi impiegati che operai, e non solo della FIAT, qui sembra si sia arrivati ad un punto di non ritorno, ognuno deve assumersi le responsabilità che gli competono: imprese, governo, associazioni dei lavoratori. Non si può pensare di superare la crisi del Paese se ognuno di noi non è disposto a qualche sacrificio: l’impresa dovrebbe dare il massimo delle garanzie, evitando azioni che mettono in allarme maestranze ed impiegati, il governo da parte sua non può consentire che venga messo in discussione neppure un posto di lavoro, i lavoratori devono compiere il massimo sforzo per dare maggiore slancio all’impresa.

Non so quanto possa valere, ma mi piacerebbe vedere sfilare per le vie di Torino una grande manifestazione alla quale partecipino assieme colletti bianchi e tute azzurre uniti in un unico slogan: “Salviamo il  lavoro, con l’impresa per il Paese”.

LA CRISI DEL PAESE – E’ L’ORA DEI COLLETTI BIANCHI

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Bersani per primo denuncia la crisi dei partiti, quanto leggiamo su Margherita e Lega (in attesa che altri li seguano) ne sono la conferma; Alfano, in qualche modo lo lascia intendere; Di Pietro lo denuncia; Vendola ne è la prova vivente.
Cosa significa tutto questo? Semplice: crisi d’identità: carenza di leaders.
Berlusconi, sul quale il mondo moderato aveva puntato tutte le sue chanse, è passato da star a cometa. Dalla sua scesa in campo, fermata l’egemonia della sinistra tanto decantata dal povero Occhetto, di concreto poi ha fatto ben poco. Si è trovato spesso incartato con alleati “mignatte” che avevano tutto l’interesse a limitarlo con la speranza di grattargli qualche voto. D’altra parte lui ha rinunciato apertamente a costruirsi un partito vero, strutturato sia al vertice che nella periferia, forse non ha mai voluto farlo per paura che in seguito forse avrebbe dovuto rendergli conto. Ha preferito mantenere la bassa fisionomia del Movimento perché tutto ruotasse attorno alla sua figura. Quindi il PdL, emanazione di Forza Italia con un quarto virtuale di Alleanza Nazionale, non dispone di nessun legame ideologico, rimane movimento, quasi una Armata Brancaleone, con le fila che giornalmente si assottigliano, diretto verso un destino amaro che rasenta la scomparsa dalla scena. In periferia lo scenario si sta già realizzando. A parte i grandi centri, nei piccoli e medi comuni, le amministrazioni sono sganciate dai partiti: quasi tutte sono espressione di liste civiche composite, quando non trasversali e gli amministratori fatto salvo rarissime eccezioni, non rendono conto a nessun partito.
Se il PdL si trova in questa situazione, il PD non sta meglio. Il partito di Bersani è in piena crisi d’identità; erano partiti con Occhetto, D’Alema e Veltroni, con l’idea di ammorbidire la linea togliattana dal PCI, pur mantenendone l’idea fondamentale. Si sono poi fatti ingabbiare da Prodi che ha portato con se un’ala importante di cattolici dossettiani, questi si sono radicati dentro i gangli del vertice del partito condizionandone la politica che è rimasta si di sinistra, fuori dai vecchi schemi, ma integralista sul piano ideale, acida nei confronti dell’elettorato naturale. Bersani, la cui levatura politica è ben limitata (sembra evidente), vorrebbe fare il gallo del pollaio senza rendersi conto che, al massimo è un pollo se non addirittura, cappone. Eppure loro, i cosiddetti democratici, a differenza di Berlusconi una certa esperienza l’avevano: sarebbe stato sufficiente, nei vari passaggi che hanno segnato la trasformazione del partito, che avessero trasferito la struttura del vecchio PCI, oggi si sarebbero trovato il Paese in mano. Ma, così come nel 1945, Togliatti non seppe, o non volle sfruttare, la grande organizzazione periferica che faceva capo a lui, oggi Bersani, si ritrova con una base che, quando non gli è ostile, preferisce starsene a casa e, se vuole far vedere che ancora dispone di proseliti a sinistra, deve partecipare alle manifestazioni sindacali della CGIL, dove, pur mal sopportandolo, uno spazietto glielo lasciano.
Lascio da parte gli altri partiti perché, per dimensione, almeno nell’attuale, possono solo essere gregari. Voglio riprendere un periodo di Marcello Veneziani dal suo “Cucù”, il quale partendo dal titolo “Tecnici o partiti, la padella o la brace” dice: “…torno al caso disperato, l’Italia commissariata. Possibile che in questa situazione estrema non emerga nessun credibile leader che copra il ruolo di Marine in versione italiana? Lo spazio ci sarebbe, l’esasperazione sociale pure, c’è insofferenza verso i partiti che si appropriano e verso i bancocrati che ci espropriano”.
E’ esattamente quanto sta avvenendo. Il calo di fiducia verso la classe politica non ha certo bisogno di sondaggi per stabilirlo, è sufficiente andare alla poste per fare una raccomandata per stabilire l’indice di gradimento. Attenzione, questo non significa che il governo che ha commissariato la politica ed il Paese stia molto meglio, anzi direi che va molto peggio. La gente sta arrivando al limite di sopportazione e non è detto che si arrivi ad un suicidio di massa. Una volta i colletti bianchi cambiarono la linea politica del Paese, ora i colletti sono diventati lisi per consunzione, ma sono sempre bianchi e se si dovessero unire anche alle canottiere, credo non sia poi così difficile cambiare l’ordine delle cose. Di questo dovrebbe tener conto il Sig. Monti e compagni di governo, così come dovrebbero metterlo in conto i Partiti.
Una volta, quando la politica era una cosa seria, quando se pure vi era qualcuno che commetteva qualche irregolarità lo faceva per il partito e non per proprio tornaconto, i Monti, i Passera, le Fornero, ecc., avrebbero occupato alcuni degnamente, altri un po meno, il ruolo di consulenti. Si signori quello è il ruolo dei tecnici, i governi, possono essere a tempo, balneari, d’emergenza, ma devono essere sempre politici, composti da gente scelta per elezione (non nominata a tavolino) capace di facoltà di sintesi.
Ma, dove sono? Ecco perché, detto alla Veneziani, per uscirne, servirebbe un “Marine” in versione italiana.
giustus

16 aprile 2012

NON SI PUO TOGLIERE LA CITTADINANZA A NESSUN CITTADINO

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LETTERA APERTA AL SIGNOR PRESIDENTE NAPOLITANO

Sig. Presidente (Napolitano) premetto che non sono un evasore fiscale, non lo sono per convinzione, per coscienza ed anche per imposizione: devo però confessarle che, a questo punto, per la situazione che ci sta creando questa crisi con gli atteggiamenti della politica del governo e dei partiti, se potessi non esiterei ad esserlo. Forse, anche lei Sig. Presidente, capirebbe il mio scrivere se avesse la compiacenza di scendere qualche gradino del Colle che occupa ormai da molti anni.
Quando si è raschiato il fondo, ci si attacca a tutto, non mi riferisco agli evasori convinti anch’essi italiani, bensì a quelli che pur di salvarsi, magari dal suicidio, tentano anche quella carta. Mi creda Sig. Presidente, sono convinto siano numerosi e, proprio per questo, pur biasimandoli, non mi sembra debbano essere banditi dalla propria Patria. Io, che mi sento italiano almeno quanto lei se non un po’ di più, non lo faccio e non vorrei fosse fatto da nessuno, qualsiasi carica occupi.
Mi scusi se esprimo questa mia presunzione dettata da un immediato senso di disagio sopraggiunto alle sue parole, la mia età molto vicina alla sua, può far ben capire l’indignazione che provo. Io che con il mio lavoro, subito dopo quello di mio padre, ho contribuito con la mia partecipazione sociale e politica alla ricostruzione ed alla crescita della mia Patria, onorandola sempre e servendola quando mi è stato richiesto. L’ho fatto, assieme a tanti altri italiani, anche si è dovuto dimostrare contro i carri armati sovietici reprimevano il popolo ungherese che anelava solo libertà e democrazia. Si Sig. Presidente, allora, mi è amaro ricordare, lei non c’era. Questo seppur non le faccia onore, nessuno ha mai pensato di escluderla dai colori della bandiera del suo Paese.
Oggi lei rappresenta la massima carica della nostra Repubblica ed è garante della nostra democrazia e, proprio per questo non dovrebbe usare nei confronti di nessuna persona nata su questo suolo, neppure al peggiore dei delinquenti che sia macchiato dei reati più abietti, negare il suo essere italiano.
Anche gli evasori, che vanno perseguiti per il reato che compiono, hanno il diritto di Patria così come la Patria ha il dovere di perseguirli. Lei di questo è garante.
Voglio immaginare che le sue parole siano state dettate da un momento di particolare tensione: capisco che gli avvenimenti ai quali assistiamo quotidianamente possano sconvolgere e dettare sentimenti di rabbia ma a lei non è permesso perdere le staffe, lasci che sia sia noi ad indignarci la mattina di fronte all’edicola dove abitualmente compriamo il giornale. Lasci, Sig. Presidente, a noi la rabbia, a noi ingiustamente tartassati, siamo già tanto indignati per quanto ci viene fatto subire in nome di un risanamento fatto solo sulle nostre spalle, non vorremmo sommare ancora maggior indignazione, tanto meno nei confronti di ciò che ella rappresenta.