INTEGRAZIONE: UNA VIA DA PERCORRERE ASSIEME

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L’arrivo a Santa Teresa/Porto Pozzo di folto gruppo di migranti (troppo per un borgo che forse non arriva a trecento abitanti) e le conseguenti polemiche e prese di posizione dei cittadini, messe in grande evidenza sul social più diffuso, alcune scomposte, altre di preoccupazione, alcune , poche, che richiamano la solidarietà, spesso E volentieri in casa altrui, evidenziano il problema in tutta la sua interezza.

Forse, solo ora cominciamo a renderci conto di ciò che ha sofferto la cittadinanza di Lampedusa e, prima di loro i porti del basso Adriatico e dello Ionio. Mi ritornano in mente le immagini tremende di quella nave di profughi albanesi, tenuta ferma in banchina senza autorizzare lo sbarco di quella gente disperata vittima di una dittatura assurda durata circa quaranta anni.

Anni di sofferenza, di fame, di assenza di cultura, di privazione della pur minima libertà, gente costretta ad una quasi schiavitù, gente che vedeva, attraverso la nostra TV che riuscivano a sintonizzare clandestinamente, il benessere a pochi chilometri da loro senza poterlo raggiungere.

Eravamo in molti a scandalizzarci per questa invasione ma, allora quelle persone chiedevano solo lavoro. Mi si obietterà che non erano tutte brave persone ma, di fatto chi sbagliava e non rispettava le regole veniva processato e finiva nelle nostre galere e, pure questo era un peso per i cittadini.

Con albanesi e romeni, se pur i forma irregolare, la nostra economia non ne ha sofferto o ne ha sofferto poco. In molte circostanze, dobbiamo ammetterlo, ne ha tratto beneficio dando vita ad una economia sommersa, deprecabile quanto si vuole ma, se si va a scavare, senza andare molto in profondità, si trova che questa maledetta crisi la si sta superando, con molti dolori e tanti sacrifici ma anche con l’emergere di quei capitali che molte famiglie stanno tirando fuori per sopravvivere ma , che, allo stesso tempo consentono quel minimo movimento di denaro che permette di tirare il fiato.

Quella gente, la maggior parte, è tornata nel proprio paese dove vive e prospera e non pesa sulla finanza del nostro.

Allora, a parte qualche mugugno, non si parlava di accoglienza retribuita così come si fa ora e, comunque, era gente che voleva lavoro dove c’era. Era gente come i nostri connazionali di inizio secolo  ‘900 che emigrava verso il benessere sapendo che solo attraverso un vero inserimento avrebbe potuto rimanere nel paese che aveva scelto.

Vediamo cosa sta accadendo ora, non solo in Italia, in tutta l’Europa. Siamo vittime di una vera e propria invasione ma, non di chi sta cercando un lavoro per migliorare la propria vita, bensì spinto dal malessere creato da guerre poco più che tribali, invogliati da un contributo elargito a fondo perduto, in nome di una falsa accoglienza dalla quale si specula su tutti i fronti, spesso anche sulla pelle di poveri esseri umani che, al nulla preferiscono il poco, quel pochissimo che per loro diventa una sostanziosa fonte di finto benessere e per il quale nulla devono.

Ecco perchè sono in molti a non volere queste presenze imposte dall’alto e per le quali, quando si manifesta il dissenso si rischia di essere tacciati per razzisti.

E’ vero, tutti abbiamo il dovere della generosità, ma è anche vero che gli ospiti, anche loro hanno dei doveri da rispettare, non si pretende riconoscenza ma, come i nostri emigranti di allora, almeno buona volontà. Anche l’ospite quando anch’egli diventa stanziale deve contribuire in qualche modo alla sua sopravvivenza, deve rendersi utile alla comunità nella quale vive. Mi si obietterà che il lavoro è poco per tutti, allo stesso tempo bisogna in qualche modo provvedere a che quel poco venga fatto anche dai nostri ospiti, non fosse altro che per impegnarli.

E’ troppo facile per i signori Prefetti noleggiare due autobus caricarli e scaricarli nel primo albergo che visto l’affare, si presta ad una delle più bieche speculazioni. Quegli albergatori oltre alla speculazione dovrebbero avere il compito, sempre previsto nella retta di fare dei corsi di formazione accelerata, di insegnamento rapido della lingua del Paese ospitante, insegnare l’autosufficienza, impegnare in lavori socialmente utili e, lasciare quel tempo libero di cui ognuno di noi ha diritto dopo una giornata di impegno lavorativo.

Buona parte di tutto questo può essere fatto anche attraverso associazioni di volontariato e con l’apporto primario delle amministrazioni comunali oltre che alle Prefetture.

Forse così si potrebbe ottenere una vera integrazione e, sicuramente, si avrebbe meno reazioni insofferenti da parte dei cittadini ospitanti. Certamente, impegnare questi ragazzi e ragazze in una qualsiasi attività eviterebbe il bighellonare di queste persone, alcune delle quali, dimostrano invadenza quando non danno fastidio ai locali apostrofando con complimenti poco graditi quando non provocando timore o preoccupazione.

Se si vuole fare accoglienza la si faccia, magari partendo da quelle prime regole elementari, insegnando, con buon senso, la buona educazione secondo i costumi locali. Solo così, forse, si superano quegli ostacoli che spesso vengono definiti razzisti. Diamo quel benessere a loro sconosciuto e chiediamo in cambio collaborazione e buona volontà.