Monti-bis: carta vincente?

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A me Monti non è stato mai simpatico: per principio sono contrario ai professori che si prestano alla politica, lo sono almeno quanto è per i magistrati. Sono due categorie che, per loro autonoma scelta, hanno dedicato la loro vita all’insegnamento diventando, alcuni, nella loro materia, degli illustri scienziati. Per i magistrati, è inutile negarlo, incombe sempre il dubbio di un uso improprio della legge, perché, anche in buona fede, possano trarne vantaggio.

I professori, almeno ai tempi in cui la politica era una cosa seria, praticata da personalità di grande spessore, venivano chiamati a dare la lo ro illuminata consulenza, e poiché  su uno stesso problema la visione difficilmente collimava, il politico aveva la possibilità di trovare la giusta soluzione prendendo quanto di buono poteva trarre dalle proposte che gli venivano sottoposte, scartando.

Ho voluto fare questa lunga premessa per dare un senso logico a quanto andrò a scrivere.

Ieri Casini ha rilanciato Monti per proseguire con il suo governo per la prossima legislatura. Il PD con Bersani ha respinto tale ipotesi: convinto di aver già vinto le prossime elezioni, non intende lasciare spazio ad altri che non a se stesso; Il PdL con Alfano risponde con un “ni”, ma li sappiamo bene che chi decide è Berlusconi: Le atre forze politiche, dalla Lega a Di Pietro, sono per un “no” secco a Monti. Monti, da parte sua  dice di non voler accettare ma, cosciente anche del gradimento della Comunità Europea, alla fine potrebbe anche sacrificarsi dando così un segnale forte sulla stabilità e sulla continuità del Paese Italia.

Stando a quanto offre il panorama politico, senza dare nulla per scontato, che, che se dica, le alternative a Monti sono molto deboli. In uno stato di crisi globale come quello che si sta attraversando, non si intravvedono altre possibili soluzioni: nessuno dei leaders dei partiti concorrenti dispone di quei presupposti, indispensabili nella situazione a venire. Casini ha rinunciato in partenza; Bersani vorrebbe ma, con quali presupposti? Ipotizziamo che abbia un risultato elettorale favorevole, con quali risorse affronterebbe quelle riforme sociali cui va sbandierando da sempre? La soluzione sarebbe aumentare le tasse, oppure aumentare il debito pubblico. La Comunità Europea manterrebbe il suo sostegno così faticosamente ottenuto da Monti? E se le elezioni le vincesse il PdL, Berlusconi potrebbe governare abbassando la pressione fiscale? Senza tener conto che il suo nome non è certo una garanzia per l’Europa.

Se Berlusconi vincesse le elezioni, cosa non improbabile con lui esposto in prima persona, dovrebbe essere lui stesso a proporre un Monti-bis, magari con una impronta più politica di quanto non lo sia ora, con ministri d’area. Politicamente sarebbe la mossa più azzeccata in quanto, con questa mossa renderebbe inevitabile la coalizione con Casini formando così un centro-destra solido al quale non potrebbe mancare l’appoggio dell’ultimo Napolitano e, forse, quella stessa coalizione potrebbe attrarre anche una sinistra depurata dalla sua estrema.

Per ora quello su cui bisogna puntare con urgenza è ad una buona legge elettorale che restituisca al cittadino il diritto di scelta del proprio rappresentante, per il resto ogni sistema può essere esaminato e reso accettabile, poi il governo: un governo che non perda di vista, pur nel necessario rigore, una vita dignitosa per il cittadino. La parte politica, che dovrebbe far parte di un governo Monti-bis, darebbe un giusto equilibrio per poter raggiungere quegli obiettivi di sviluppo che il nostro Paese aspetta.

Piano Solo, quando Napolitano a Scalfari erano già fianco a fianco

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Racconto

Alessandro Marzo Magno

Quarantacinque anni fa si ritrovarono fianco a fianco. In occasione del cosiddetto Piano Solo e del presunto tentativo di golpe del generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo. A sollevare il caso fu Lino Jannuzzi su L’Espresso, allora diretto da Scalfari. Dalla stessa parte, nel Pci, il fronte della fermezza contro Antonio Segni e i dorotei della Dc era guidato proprio da Giorgio Napolitano.Facebook LikeGoogle Plus One

Cultura

Non è la prima volta che Eugenio Scalfari e Giorgio Napolitano si ritrovano fianco a fianco in una questione delicata che riguarda la presidenza della Repubblica. L’occasione precedente fu 45 anni fa, in piena Guerra fredda, quando segretario del Pci era Palmiro Togliatti, e il presidente della Repubblica nel mirino era Antonio Segni. Anzi, sotto tiro era il partito di cui Segni faceva parte, la Democrazia cristiana, perché stiamo parlando del 1967 e Segni si era dimesso per malattia nel dicembre 1964. La vicenda è quella del cosiddetto Piano Solo e del presunto tentativo di golpe del generale dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo (presunto perché gli studi più recenti – Franzinelli, Il Piano Solo. I servizi segreti, il centrosinistra e il «golpe» del 1964, Mondadori 2010, che utilizza una mole di documenti inediti – ritengono che si sia trattato soltanto di «un’interpretazione estensiva e autonoma» del «piano di emergenza speciale» preparato dalla polizia nel novembre del 1961, quando si temevano violenze di piazza in seguito alla crisi di Berlino).

L’esistenza di un piano per arrestare in caso di “emergenza” 731 personaggi, dirigenti del Pci e della Cgil, ma non solo (dovevano finire impacchettati anche i registi Pier Paolo Pasolini e Gillo Pontecorvo, gli storici Aldo Garosci ed Enzo Santarelli, il critico d’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli e qualche socialista come l’emiliano Clodoveo Bonazzi) viene rivelato in un articolo dell’Espresso del 14 maggio 1967 (ma le anticipazioni vengono diffuse tre giorni prima). Il settimanale, al tempo diretto da Eugenio Scalfari, pubblica un pezzo di Lino Jannuzzi dal titolo “Complotto al Quirinale”. Con lo stile piuttosto concitato che caratterizzava allora l’Espresso, una specie di trasposizione giornalistica dei quadri di Hieronymus Bosch, («Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: 36 all’ombra. Due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli, in piedi, impettiti sull’attenti, stipati nella stanza del comandante generale dell’arma dei carabinieri, sudavano. Né era pensabile che ci si potesse sedere, spalancare le finestre, farsi venire su delle granite dal bar all’angolo di viale Romania. Sarebbe stato più confortevole, ma assai sconveniente e incompatibile con la solennità del momento. Calmo e severo, nonostante fosse il più grasso e il più sudato di tutti, il comandante generale, Giovanni De Lorenzo, stava concludendo il rapporto agli ufficiali») Jannuzzi spiega che il generale dei carabinieri, col pieno consenso del presidente Antonio Segni, intendeva mettere a segno un golpe per cacciare dal governo i socialisti di Pietro Nenni da poco associati alla stanza dei bottoni dai democristiani di Aldo Moro (che in quei giorni del 1964 presiedeva i primi governi di centrosinistra).

La politica di apertura a sinistra era profondamente avversata dalla corrente democristiana dei dorotei (di cui in un primo momento aveva fatto parte pure Moro) che aveva proprio in Antonio Segni uno dei suoi punti di riferimento. I tentativi di estromettere il Psi non andranno a buon fine, ma segneranno profondamente la politica italiana. Il generale De Lorenzo, medaglia d’argento al valor militare per la sua attività nella Resistenza (il che non gli impedirà di finire i suoi giorni come parlamentare di estrema destra), prima di essere a capo dei carabinieri aveva diretto il Sifar, dove si era dedicato alla compilazione di dossier su numerosi personaggi.

La vicenda si dipana tra il 1964 e il 1965, ma diventa di dominio pubblico soltanto dopo la pubblicazione dell’articolo di Jannuzzi nell’Espresso. Nel frattempo Antonio Segni viene messo fuori gioco da un ictus che lo coglie durante un’agitata discussione proprio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, l’esponente socialdemocratico che gli succederà alla presidenza della Repubblica. Naturalmente le faccenda deflagra come una bomba nel mondo politico italiano, con contrapposizioni davvero inaspettate. Nel Pci il fronte della fermezza è guidato proprio da Giorgio Napolitano che, assieme a Pietro Ingrao e Mario Alicata, vuole proporre una mozione contro i dorotei. A sorpresa Napolitano viene sconfessato dal suo segretario, Palmiro Togliatti, che invece apre uno spiraglio verso un eventuale governo di emergenza guidato dal presidente del Senato, Cesare Merzagora (governo che non vedrà mai la luce, mentre Aldo Moro succederà a se stesso).

Eugenio Scalfari e il suo giornalista Lino Jannuzzi sono schierati sulla medesima linea di contrapposizione frontale con i dorotei e quindi con l’operato del precedente inquilino del Quirinale. Per i loro articoli sul Piano Solo saranno processati per direttissima e condannati nel marzo 1968 a 15 (Scalfari) e 14 (Jannuzzi) mesi di reclusione con la condizionale. Condanna giunta dopo che il pubblico ministero Vittorio Occorsio (ucciso il 10 luglio del 1976 dal neofascista Pierluigi Concutelli) aveva chiesto il proscioglimento dal reato di diffamazione aggravata. Entrambi vengono poco dopo eletti parlamentari nelle fila del Psi (Jannuzzi tornerà in Parlamento molti anni più tardi con Forza Italia). 

Franzinelli sostiene che l’ipotesi del golpe è irrealista anche perché sia il Vaticano sia gli Stati Uniti erano favorevoli al centrosinistra. Anzi, secondo gli americani, questo era il modo migliore per tenere il Pci lontano dal potere. Un rapporto del dipartimento di Stato americano reso pubblico di recente afferma: «Un regime di destra extra legale sarebbe decisamente contrario ai nostri interessi a lungo termine in Italia e, eccezion fatta per un’alternativa al caos totale che includesse il pericolo di una presa del potere comunista, dovremmo utilizzare la nostra influenza politica per prevenirlo». Niente golpe, quindi, a meno che non servisse a cacciare i comunisti dal governo. Il Piano Solo, secondo le parole di Franzinelli, era «una pistola scarica, che viene nondimeno oliata e accudita, così che alcuni leader politici si sentono sotto tiro».

Col senno di poi, si può affermare che Scalfari e Jannuzzi avevano torto: De Lorenzo era abbondantemente uscito dal seminato istituzionale, ma il suo non era un tentativo di golpe e quindi le accuse all’operato di Antonio Segni non potevano contare su una solida base.

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