“Dopo di me il diluvio” è, di fatto, il leit motiv di Matteo Renzi per spaventare i cittadini e sperare in una rimonta del “sì” domenica prossima. Le tenta tutte il segretario-premier, arruolando persino il Financil Time, rendendo ancor più incandescente questo scorcio di campagna elettorale per il referendum costituzionale. A nulla è valso l’invito del Presidente Mattarella ad abbassare i toni, a tornare ad un civile confronto.
Pareva che Renzi , dopo il colloquio al Quirinale, avesse deciso di dare il buon esempio, non imitato, per la verità, dai suoi oppositori, in particolare Grillo, Salvini e Brunetta, mettete in conto anche parte della sinistra dem. Poi la nuova svolta (la quinta…), dopo gli inquietanti episodi della Campania con l’”inno al clientelismo” del governatore pd De Luca e con il “fuori onda” anch’esso clientelare ,del senatore verdiniano D’Anna e, soprattutto, la bocciatura da parte della Suprema Corte dei quattro fondamentali punti della riforma della Pubblica Amministrazione firmata dalla ministra Madia.
Così il premier è tornato all’attacco di tutto e di tutti: “E’ un Paese in cui siamo bloccati…..E poi mi dicono che non debbo cambiare le regole del V° ( il titolo quinto della Costituzione- ndr) . Siamo circondati da una burocrazia opprimente.” E tanto per smentire le stesse fonti di Palazzo Chigi che avevano tentato di attenuare la portata di queste dichiarazioni sostenendo che Renzi non si riferiva alla Corte Costituzionale, ma a chi aveva presentato il ricorso, (il governatore del Veneto Zaia) ecco l’altra chiosa renziana: “Anche gli alti burocrati sono contro il cambiamento, tifano per il “NO” e le loro posizioni di rendita.” Il riferimento alla Consulta è chiaro , nemmeno troppo indiretto, e sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il presidente Mattarella che ne ha fatto parte prima di salire al Quirinale.
Ovviamente la reazione del nostro primo ministro non si ferma qui e prevede un apocalisse economica-finanziaria se vince il “no”, specificando: “chi non è stato capace di fare le riforme non ha il diritto di bloccarci”. Ora, a parte che riforme costituzionali sono state varate nel corso degli anni e quella più ampia, approvata con il governo Berlusconi, fu bocciata con un referendum sostenuto anche da chi oggi è nel Pd, ossia ex-popolari, ex- democratici di sinistra ed ex- rutelliani, sorprende il concetto di democrazia che dimostra di avere il segretario-premier. Che arriva addirittura a dire: “il 4 dicembre è in gioco il futuro dell’Italia. Chi vuole un governo tecnico che alzi le tasse come ha fatto quello di Monti vota “NO””. Chiaro riferimento alla crisi di governo e ad un terremoto sui mercati al punto da provocare la replica proprio di Mario Monti: “ogni turbolenza sui mercati finanziari sarebbe attribuibile non ai risultati del referendum, ma soltanto a Renzi.” E pare la pensi così anche il ministro Dario Franceschini, che nel Pd guida una robusta pattuglia di 60 parlamentari e che, pur sostenendo il Sì, se n’è uscito, su twitter, con una battuta al vetriolo nei confronti del premier pronto a dimettersi se perde il referendum: “è da irresponsabili chiamarsi fuori in caso di sconfitta.”
E’ un chiaro richiamo da chi può essere determinante nel congresso del Pd , dove è già stato segretario e potrebbe sostituire l’attuale, ricompattando il partito se l’ex-sindaco di Firenze rimane a Palazzo Chigi come ha chiesto anche Silvio Berlusconi. L’interessato, però, non sembra sentire ragioni e va avanti per la sua strada, ritornando all’iniziale personalizzazione del referendum, ormai trasformato in un tentativo di plebiscito sulla sua persona, personalizzazione che lo stesso Renzi aveva definito un errore da parte sua. Evidentemente anche il guru americano della comunicazione, quello suggeritogli da Obama, è convinto che sia la strada giusta da percorrere dopo la bocciatura della riforma Madia e gli inviti al clientelismo di De Luca e D’Anna per far votare a favore del “sì”.
Di certo anche certi virulenti attacchi da parte degli oppositori hanno convinto il premier della necessità di replicare, sfruttando qualsiasi elemento , compresa la paura dei risparmiatori. Ad esempio, mi sembrano a dir poco eccessive le accuse formulate in un seminario sul referendum, dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che fece parte del pool antimafia con Falcone e Borsellino. Leggete queste significative frasi: “la riforma toglie potere al popolo e lo consegna ai mercati finanziari…….. Ci riporta a quando il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detengono il potere economico.” Ancora più dura e lapidaria l’affermazione del big-costituzionalista Alessandro Pace: “è un tentativo di eversione istituzionale.”
Non credo che la democrazia sia in pericolo se vince il “Sì” e , quindi, sono notazioni eccessive, ma probabilmente si tratta di una reazione, non del tutto giustificata, alle assurde accuse mosse dai renziani, spesso anche con arroganza, a chi sostiene il “NO”. Purtroppo siamo ben lontani da quel che lo stesso Renzi aveva detto dopo il colloquio al Quirinale: “non arrivano le cavallette dopo il referendum. Dobbiamo andare al voto con leggerezza.” E nei prossimi giorni gli scontri saranno sempre più feroci con un Paese, comunque profondamente diviso in due parti .
Auguriamoci abbia ragione Silvio Berlusconi che vede un ”dopo” per certi aspetti rassicurante. Ha, infatti, detto: “Se vince il “NO” è indispensabile sedersi ad un tavolo con Renzi per fare una nuova riforma ed una legge elettorale”, aggiungendo che il premier deve rimanere al suo posto. L’interessato ha risposto no, lui se perde si dimette, non ci sarà alcun tavolo. Probabilmente è un modo per alimentare la paura dei risparmiatori con una crisi di governo, ma sarà il Presidente della Repubblica a decidere, respingendo le eventuali dimissioni e rinviando il premier alle Camere che, data nuova fiducia a Renzi, anche con il concorso o l’astensione dei berlusconiani, rilancerebbe il tavolo del confronto, con la partecipazione, ovvia, degli altri partiti, compresi i grillini, ai quali non dispiacerebbe una legge elettorale proporzionale all’80% con sbarramento del 5-8%ed il 20% di collegi uninominali come i plenipotenziari di Forza Italia e del Pd avrebbero già concordato. E varebbe anche nel caso di una vittoria del “Sì”.